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Nel dossier, le ipotesi simulano un sisma di intensità

pari al massimo storico registrato in ogni singola città.

160.000 a Catania e almeno 7000 a Roma

 

 

Nella banca dati del Dipartimento della Protezione Civile è pianificata l’emergenza in caso di terremoto. Migliaia di schede riservate, aggiornate periodicamente e mai rese pubbliche. Una per ogni Comune con tutti i numeri necessari a valutare gli effetti di un sisma e predisporre così i soccorsi.

Numero di crolli, case inagibili, abitazioni danneggiate, percentuale dei crolli sul totale e così via. E poi c'è il fattore umano. Le stime sulle persone che in futuro potrebbero essere coinvolte, cioè il totale di morti e feriti nel caso di un forte terremoto, sono agghiaccianti: 161.829 a Catania, 111.622 a Messina, 84.559 a Reggio Calabria, 45.991 a Catanzaro, 31.858 a Benevento, 19.053 a Potenza, 73.539 a Foggia, 24.016 a Campobasso, 20.683 a Rieti. Nemmeno Roma verrebbe risparmiata con 6.907 abitanti sotto le macerie. A Verona sarebbero 7.601, a Belluno 17.520, a Brescia 5.224. Anche Milano dovrebbe organizzare le ricerche e il soccorso di 962 persone travolte dai crolli e l'assistenza a 26.400 senza tetto. Vanno poi sommati gli effetti nei paesi e nelle città vicine, aggravando così il bilancio del disastro. La prova evidente di quanto tempo l'Italia ha sprecato: non solo dalle scosse che proprio un anno fa hanno sconvolto parte dell'Emilia, o dalla tragedia dell'Aquila nel 2009, ma soprattutto dall'ultima grande catastrofe che ha raso al suolo l'Irpinia il 23 novembre 1980.

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ALLARME ROSSO
Sono pesanti le conseguenze se una di queste città venisse oggi colpita da un terremoto pari alla massima intensità già registrata localmente. Il rischio purtroppo non è solo ipotetico. Una rete di monitoraggio internazionale, alla quale partecipa il dipartimento di Matematica e geoscienze dell'Università di Trieste, ha acceso un segnale d'allarme sull'Italia centrale e sul Meridione, in particolare sulla Calabria e la Sicilia orientale. Nel Centro, l'allerta è stata attivata dal novembre 2012. In Calabria e Sicilia dal gennaio 2012, dopo diciotto anni di silenzio del sottosuolo. La situazione viene valutata ogni due mesi in base all'attività sismica di fondo. E a marzo 2013 l'allarme degli scienziati per un forte terremoto era ancora in corso. Il dato corrente, aggiornato a inizio maggio, è tenuto segreto. Viene comunicato soltanto alle agenzie governative. Il gran numero di piccole scosse registrato in questi giorni proprio in Calabria e nell'Italia centrale dimostra comunque che la nuova energia che da qualche tempo attraversa la crosta terrestre tra l'Africa e l'Europa non si è dissipata.


IL PESO SUI CONTI
Viaggiare lungo l'Italia dei terremoti è un altro tuffo nel Paese delle occasioni perse. Secondo un rapporto dell'ufficio studi della Camera, dal 1968 al 2009 la gestione dell'emergenza e la ricostruzione in Italia sono costate 135 miliardi di euro, con valori monetari Istat attualizzati al 2008. Di questi, 92 miliardi sono stati stanziati dallo Stato. Gli effetti sui conti pubblici si sentono ancora. Per il terremoto del Belice in Sicilia (1968), gli impegni di spesa finanziati da leggi e decreti termineranno nel 2018. Per l'Irpinia (1980), nel 2020. Per le Marche e l'Umbria (1997), nel 2024. Per il Molise (2002), nel 2023. Per l'Abruzzo (2009), nel 2033. Soltanto per il Friuli (1976) il capitolo ricostruzione è stato definitivamente archiviato, ma gli stanziamenti hanno impegnato lo Stato fino al 2006. 


PREVENZIONE FANTASMA
Se confrontiamo il database riservato della Protezione civile con la media mondiale, finiamo direttamente tra i Paesi arretrati. Ipotizzando un sisma di magnitudo 7 nell'Appennino meridionale, intensità ritenuta possibile perché già registrata in passato, si prevedono fino a 11.000 morti e più di 15.000 feriti. La media mondiale per un sisma di quel livello si ferma a 6.500 morti e 20.500 feriti. In Giappone a 50 morti e 250 feriti. La grande differenza nei numeri tra Italia e Giappone è chiaramente dovuta alle tecniche di costruzione impiegate e agli investimenti nella prevenzione. 


NUOVI METODI
La banca dati è da anni sfruttata dalla Protezione civile. È stata realizzata da un gruppo di lavoro del Servizio sismico nazionale guidato da un ingegnere, Giampiero Orsini. L'intensità di un terremoto viene calata sul patrimonio edilizio attuale della città presa in considerazione. Il calcolo tiene conto di parametri locali come la densità degli abitanti, la vulnerabilità degli edifici in base all'anno e al materiale di costruzione, l'altezza dei palazzi e tutto quanto la Protezione civile aggiorna nel Sige, il sistema informatico di gestione delle emergenze. Ogni scheda offre tre scenari: terremoti di intensità più bassa (maggiore probabilità che si verifichino nell'arco di 50 anni), media e forte (corrispondenti alla massima intensità storica registrata in quel luogo). Nel grafico abbiamo preso in considerazione l'intensità massima registrata che ovviamente varia da comune a comune, dipendendo dall'attività sismica della zona circostante. Gli "Scenari di danno comunali" così ottenuti sono comunque approssimati, basandosi su un calcolo statistico. La qualità delle costruzioni è un'altra variabile decisiva. Per la statistica un condominio in cemento armato costruito nel 2010 dovrebbe avere una buona capacità antisismica. Nella pratica molto dipende dal tipo di suolo, dalla qualità del cemento usato, dall'eventuale sovrapposizione di più onde sismiche durante il terremoto. E soprattutto dalla professionalità di progettisti e costruttori. Per questo gli stessi scenari di danno, nel loro range di variabilità della stima, ipotizzano anche conseguenze più gravi, considerandole però meno probabili. 


ALLA CONTA DEI DANNI
Raccontavano ai bambini che rimanendo in silenzio nei boschi di tiglio si potesse sentire l'Orcolat, il mostro che fa tremare la terra. Qui, dove la Carnia si impenna come un'onda da surf sulla pianura friulana, i terremoti hanno firmato un paesaggio di montagne che ricorda il mare in burrasca. Sopra questo incrocio di faglie hanno ricostruito Trasaghis, il paese dei lamponi e dei mirtilli raso al suolo il 6 maggio 1976. Se si dovesse ripetere un sisma come quello, la Protezione civile prevede 1.258 persone tra morti e feriti e 1.126 senza tetto. Cioè tutti gli abitanti, con una percentuale di crolli stimata fino all'88,6 per cento. Scendendo verso Udine, appena oltre il ponte sui ghiaioni del Tagliamento, ecco Gemona: 5.217 coinvolti in crolli e 4.711 senza tetto. Andando verso Ovest, gli scenari descrivono città e paesi gravemente danneggiati anche dove la mappa nazionale sulla pericolosità sismica mostra i colori del basso rischio. È il caso di Venezia con 2.449 persone coinvolte in crolli e oltre 28.000 senza tetto. Verona con 7.601 coinvolti e 52.050 senza tetto. Oppure Brescia con 5.224 tra morti e feriti e 38.321 senza tetto. 


Se la mappa evidenzia un pericolo basso o nullo, le prescrizioni per la costruzione di case e capannoni in quell'area sono meno restrittive. Proprio per questo, a differenza delle zone industriali di Gemona e Tolmezzo in Friuli, le migliaia di fabbriche nella provincia di Verona e Brescia sono state realizzate con moduli prefabbricati identici a quelli impiegati in Emilia. Gli stessi che un anno fa sono venuti giù come castelli di carte. Roma risente invece dei forti terremoti che periodicamente colpiscono le zone di Rieti, Avezzano e Sora, provincia di Frosinone. La dimostrazione delle loro conseguenze nella capitale è proprio davanti a Palazzo Chigi. Basta guardare con attenzione la colonna di Marco Aurelio, lì da milleottocento anni. Tra il nono e il decimo blocco i bassorilievi sono disallineati di otto centimetri. Un sismografo monumentale che ha registrato l'intensità delle onde sismiche sui sedimenti del Tevere. Ma oltre a soccorrere 6.907 abitanti coinvolti nei crolli, la capitale dovrebbe affrontare l'assistenza a 110.497 senzatetto. 

SENZA PRESIDIO
L'Italia è pronta a tutto questo? Sembra proprio di no. Abbiamo fatto un giro di telefonate a funzionari pubblici delle questure e delle prefetture di Roma, Potenza, Napoli, Catanzaro, Reggio Calabria e Catania. E praticamente nessuno, alla pari degli abitanti di queste città, è consapevole del rischio. La stessa macchina dei soccorsi, che in Friuli e in Irpinia poteva contare sui militari di leva, si appoggerebbe oggi soltanto sui vigili del fuoco e su pochissimi gruppi di volontari specializzati nelle operazioni di ricerca dei feriti e di recupero dei cadaveri. Lo si è visto a L'Aquila. Ma quanti vigili del fuoco servirebbero davanti a migliaia di persone sotto le macerie? La risposta mette in evidenza un sospetto che per alcuni scienziati è già una conferma. Da almeno quindici anni gli specialisti che hanno guidato le scelte della Protezione civile in Italia hanno sottostimato il rischio. Un problema non soltanto italiano. La dimostrazione sarebbe proprio il terremoto di un anno fa in Emilia. Il Servizio sismico nazionale, inserendo nel calcolo di scenario l'intensità massima registrata in una data città, rivela involontariamente che la mappa di pericolosità adottata per legge dalla Protezione civile e dai Comuni è inattendibile. Perché paradossalmente la mappa ufficiale non prende in considerazione l'intensità massima dei terremoti già avvenuti. Si limita a calcolare la probabilità più o meno alta che si ripetano nel tempo di 50 anni. Periodo che coincide con l'età media degli edifici negli Stati Uniti, dove questo approccio è stato avviato una quarantina di anni fa. 


MAPPE FALLATE
Scienziati italiani e stranieri da tempo a Trieste stanno sperimentando una impostazione più realistica della classificazione sismica. E hanno tra l'altro dimostrato che la Pianura Padana non è affatto una regione priva di rischi. «Il terremoto del 20 maggio 2012 in Emilia ha evidenziato un problema generale nelle mappe di pericolosità sismica, definite secondo il classico approccio probabilistico», spiegano Giuliano Panza, del Dipartimento di Matematica e Geoscienze dell'Università di Trieste e direttore del Sand-Group al Centro internazionale di fisica teoretica Abdus Salam, e Antonella Peresan, del dipartimento di Matematica e geoscienze dell'Università di Trieste: «L'evento si è verificato in un'area classificata a bassa pericolosità sismica. L'ultima revisione della classificazione sismica era stata motivata dal terremoto di San Giuliano di Puglia, avvenuto anch'esso in un'area precedentemente definita a bassa pericolosità. La precedente classificazione era stata a sua volta aggiornata nel 1981 dopo che le precedenti mappe avevano mancato il terremoto dell'Irpinia. Il terremoto più forte ipotizzato dalla mappa nell'area emiliana, di magnitudo 6,2 confrontabile con quella del 20 maggio, aveva un tasso atteso di un evento ogni settecento anni circa. In realtà un simile evento può verificarsi in qualsiasi momento. E infatti si è verificato pochi anni dopo la pubblicazione della mappa». 


LEZIONI DALLA STORIA
Secondo le ricerche di Panza e Peresan e del loro gruppo di studio internazionale, i parametri di progettazione antisismica non devono essere ridotti o aumentati in funzione della minore o maggiore sporadicità del terremoto, come previsto dalle mappe probabilistiche: «Devono invece tenere conto dei valori di magnitudo definiti in base alla storia sismica e alla sismotettonica di un dato luogo. Questo metodo deterministico è già disponibile e applicato da diversi anni. Non c'è bisogno di produrre altre mappe. Esistono già dal 2000». Trieste guida da anni la sperimentazione in Italia sulla previsione dei terremoti. Due algoritmi analizzano le variazioni nella sismicità di fondo e la confrontano con i dati che hanno preceduto o accompagnato i terremoti nel passato. Sono gli stessi algoritmi che lo scorso anno hanno segnalato con settimane di anticipo la possibilità di un forte terremoto in Friuli o in Emilia. E che ora tengono alta l'allerta nel Centro e nel Sud Italia.


ANNI SPRECATI
I terremoti non si possono prevedere con precisione. Una previsione, pur non essendo dettagliata nell'indicare il luogo o il giorno, non serve a evacuare milioni di abitanti. Basterebbe che le Regioni ne approfittassero per allertare le reti di soccorso. Un terzo dei sindaci in Calabria, che tra l'altro è una delle regioni del Sud dove la Protezione civile è più allenata, non ha un piano comunale. Significa che, in caso di emergenza, gli abitanti non saprebbero dove raccogliersi e i soccorritori dove portare i feriti. Così come a Priolo, Milazzo, Manfredonia il pericolo aumenta per la presenza dei grossi impianti chimici. Luoghi dove ci si rassegna alla scaramanzia non essendoci obbligo di prevenzione. 


Il tempo perso lo si vede negli edifici pubblici tuttora a rischio. In Sicilia 1.050 scuole su 2.300 sono a vulnerabilità sismica alta o medio alta. In Calabria 2.300 su 3.900. In Campania 2.600 su 4.400. A Catanzaro il deposito di pronto intervento è stato da poco potenziato con 876 tende, 21 impianti elettrici da campo, 37 gruppi elettrogeni, 24 torri faro.«Abbiamo popolazioni inconsapevoli del rischio e perciò esse stesse poco esigenti verso chi li amministra», dice il direttore della Protezione civile, Franco Gabrielli: «In questi due anni e mezzo, girando per il Paese, ho notato sempre grande sensibilità sulle risorse da destinare agli esiti di eventi calamitosi, essenzialmente risarcimento dei danni che negli ultimi anni hanno riguardato oltre l'80 per cento delle somme erogate. Mai per una seria politica di messa in sicurezza dei territori. Ancora troppi Comuni non hanno piani di protezione civile. E quelli che ce l'hanno sulla carta, in massima parte non sono conosciuti dai cittadini».

 

di Fabrizio Gatti
fonte: espresso.repubblica.it del 20 maggio 2013

 

 

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